Sino a 20 anni fa i calciatori si facevano operare all’estero.
Adesso sono gli stranieri a venire dai nostri specialisti del piede e del ginocchio
Adesso hanno le liste d’attesa. Le tv e i fotografi che li aspettano fuori dalle cliniche. I pazienti che scrivono (e arrivano) perfino dall’estero. Non tutti, certo, soltanto i luminari, però la musica è cambiata, rispetto ai primi anni 80, quando gli ortopedici erano le cenerentole della chirurgia, e chi poteva andava a operarsi in Francia (Lione e a Marsiglia erano le “capitali del ginocchio” ), o magari in Svezia e negli Stati Uniti.
Oggi la situazione appare rovesciata. Bisognerebbe vederli, i calciatori che sfilano lungo i corridoi della settecentesca Villa Stuart, sulla via trionfale a Roma: i Totti, gli Emerson, i Nesta, i Tommasi. Tutti rimessi in piedi (e in campo) da Pier Paolo Mariani, chirurgo ortopedico, traumatologo e docente di scienze motorie presso lo Iusm di Roma. Uno che, a partire dal ’71, ha operato, racconta, “tante persone quante ne abitano in una città di media grandezza: 30mila o forse anche più”, che si sono moltiplicate, negli anni, attraverso il passaparola. I calciatori sono arrivati dopo.

Il Prof. Pier Paolo Mariani
Negli anni 90 il primo; il mitico Aldair; ad agosto l’ultimo, Jèrèmy Menez, giovane asso francese. Sono loro che hanno acceso su Villa Stuart i riflettori della tv di tutto il mondo:nemmeno il ricovero di Giuglio Andreotti, negli anni 80, aveva suscitato tanto clamore.
Anche perché, se fosse dipeso dal professore, nomi non ne sarebbero usciti, neppure quello di Francesco Totti, anche se Mariani è “romanista fino all’osso” e, proprio con Totti, il suo bisturi ha fatto miracoli. “Ho fatto il mio lavoro”, taglia corto Mariani. Certo, chi lo contraddice? Però lo ha fatto meglio di tutti, altrimenti non avrebbe la fila dei calciatori fuori dalla porta. Pure stranieri, come stamattina: c’è un tale che viene dalla Gran Bretagna. Famoso, pare.
Ma la privacy impedisce di scoprirne l’identità. “Stiamo cercando di pareggiare i conti”, scherza il padre italiano dell’astroscopia. Perché, se pure non sono ancora molti gli stranieri che frequentano i nostri ortopedici, i viaggi all’estero dei connazionali si sono azzerati: i luminari ci sono anche qui. E pure i centri di eccellenza, con ospedali monotematici come per nessun’altra specialità:il ginocchio, la mano, il piede, l’anca, la colonna vertebrale e così via.
D’altra parte, spiega Mariani, “l’ortopedia è un ramo della medicina dagli interessi multiformi, e la competenza ultraspecialistica ha consentito di raggiungere risultati impensabili solo vent’anni fa. Quando mi sono laureato, la protesi era l’eccezione, oggi è la regola: 120mila all’anno l’anca, 60mila il ginocchio”.

La superspecializzazione entra perfino nell’ambito della traumatologia: con il ginocchio al primo posto, croce di oltre un milione di italiani, seguito da anca e spalla. Questo, ovviamente, dimezza i tempi di intervento: oggi un legamento si “ripara”in un’ora. “Certo molto dipende dallo specialista”, osserva Mariani. Ci sono chirurghi che impiegano il doppio del tempo”.
Come nella ricerca, insomma, anche nella chirurgia i monospecialisti preparati e affinati di continuo apportano sicuramente dei vantaggi. Ma secondo Roberto D’Anchise, 62 anni, che dirige l’Unità operativa di chirurgia del ginocchio all’Istituto ortopedico Galeazzi di Milano, il top delle eccellenze italiane, “l’altra faccia della medaglia è la crescente difficoltà di interpretare la malattia nella sua interezza. O di perdersi davanti a tecniche operatorie diverse”.
Un rischio che, spiega, “riguarda soprattuttoi più giovani, quando nascono, appunto, come artroscopisti”. Lui, che dopo 15 anni di ortopedia generale è diventato uno dei maestri della chirurgia del ginocchio a livello internazionale, e che è stato il primo, in Italia, a effettuare un trapianto di menisco (ottobre 2002), possiede una conoscenza del corpo così globale e approfondita da poter eseguire, con estrema sicurezza, anche interventi non necessariamente legati al ginocchio.

Villa Stuart, "la clinica dei calciatori"
Del resto, come anche Mariani, D’Anchise è ancora uno di quei chirurghi che, prima di tutto, rispondono a se stessi del loro operato. Vale a dire, alla coscienza umana e professionale. Uno di quei medici che avvertono ancora “come un dovere” considerare il paziente nella sua interezza e, “se occorre, anche nell’aspetto psicologico”. Perché, “al di là degli interventi indispensabili, un chirurgo ortopedico deve sempre avere la consapevolezza che il paziente non ha la necessità di entrare in sala operatoria, visto che è comunque possibile convivere senza grandi drammi anche con i dolori dell’artrosi.
In questo caso, non solo il bravo chirurgo deve valutare con buonsenso se esistono le indicazioni all’intervento ma anche spiegare al paziente, che sempre di più richiede l’atto chirurgico, quali sono i rischi e i benefici”. Si spinge anche più in là Mariani: “L’aggressione del bisturi sul corpo ha un costo biologico che il medico deve sempre valutare in modo onesto rispetto ai benefici. Perché la chirurgia ripara, al massimo ricostruisce, ma non restituisce mai l’integrità. E quindi ha limiti da non dimenticare”.
Certo già da un po’, interventi sempre meno invasivi tentano di rispettare il più possibile l’integrità anatomica. Ma per Mariani lo scenario del futuro è “la frontiera della biologia genetica. Gli studi sui fattori di crescita e, quindi, la possibilità di sviluppare sostanze endogene che aiutino a promuovere i processi di auto guarigione. “In fondo l’uomo appartiene al mondo animale. Dove la lucertola “autoripara” la coda amputata e il cane guarisce in fretta da una frattura ossea. Perché l’uomo non dovrebbe riuscirci?”.
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